Ardea si era persa, non riusciva a ricordare come e quando ma si era persa.
La testa le faceva tanto male mentre strani e confusi pensieri le
roteavano nella mente. Cercava di orientarsi e di capire cosa le stesse
succedendo; come si era ritrovata seduta per terra tra fiori e piante,
con le mani in grembo, le gambe divaricate e due piccole scarpette
bianche di vernice che spuntavano fuori da sotto un buffo vestito di
bambola? Si era come risvegliata improvvisamente in uno stranissimo
posto, a metà tra il meraviglioso e lo spaventoso e non ricordava
assolutamente come avesse fatto ad arrivarvi. A dire il vero non
ricordava un bel niente di niente, era sicuramente da qualche parte a
fare qualche cosa e poi, improvvisamente, si era ritrovata…, si era
ritrovata…, ecco bella domanda; dove si era ritrovata? Adesso però era
lì, anche se non aveva la benché minima idea di dove fosse questo lì,
però esisteva e lei ci si trovava proprio nel mezzo. Si toccava, si
sentiva e quindi c’era, non era un sogno e le sembrava talmente normale
esserci quanto le sembrava assurdo l’esserci arrivata e le appariva
altrettanto normale non sapere dove fosse ma sapere che era lì con uno
scopo, doveva partire e lo doveva fare subito, incamminarsi da questo lì
di chissà dove per trovare la strada, sì la strada per un altro chissà
dove lei poteva avere una casa, una famiglia, qualcuno che si stava
preoccupando per lei, qualcuno che in quel preciso momento la stava
cercando, la stava aspettando.
Era stanca ed affamata.
Le sembrava di aver camminato per giorni interi, senza mai
fermarsi ma non ricordava davvero come e ancor più non ricordava dove,
poi si era come risvegliata, d’improvviso e si era trovata in quel
singolare ed a suo modo affascinante luogo. Ardea non si sentiva
minacciata, l’ambiente era strano, nuovo, sconosciuto ma accogliente,
percepiva addirittura il benvenuto da ognuna delle cose che la
circondavano, anche se provava un vago senso di paura, indipendente da
ciò che le stava intorno, qualcosa dentro di se. Una piccola flebile
voce le diceva che, almeno per il momento, era meglio aver paura e di
certo non specificava la durata di questo cosiddetto momento.
La vocina interna le impartiva ordini precisi:
<Senza tremare, andare avanti, con attenzione e con molta calma.>
Nella sua mente si formava, come dissolvendosi dalle nebbie, la
fonte di questi tutt’altro che imperiosi ordini, una nuova ma antica
figura, qualcuno che le sembrava di ricordare, un immagine che le donava
sensazioni di pace, di calma ma anche di correttezza, di morale e di
sentirsi svaniti, una sorta di nonno, che senza fare da saggio ma con la
rassegnazione dell’umiltà e senza l’arroganza dell’ambizione le diceva:
<Meglio aver paura che buscarne.>
<Beh, nonno> pensò <Andiamo avanti con calma e vediamo cosa avrà in serbo per noi il futuro.>
Ma lei era stanca ed affamata e li intorno di tutto c’era tranne
qualcosa che le potesse sembrare, non dico saporito ma quantomeno
commestibile.
In lei albergava il dubbio della sua provenienza, smarrita e
smemorata senza sapere dove si trovava, come ci era arrivata e cosa ci
era venuta a fare. Ma aveva la sua voce interna da seguire, aveva i suoi
ordini a cui obbedire, sentiva chiaramente e serenamente che poteva
fidarsi di se stessa e della voce che sentiva e allora, come un eroina,
brandire il vessillo e cominciare la marcia. Così finalmente decisa alzò
gli occhi e cominciò a scrutare il nuovo mondo, verde e lussureggiante,
che si stendeva sotto i suoi piedi. L’immensa pianura, che partiva dal
punto dove si trovava ed arrivava fino ad un lontanissimo quanto
altissimo monte dinanzi a lei, le ricordava i film di Tarzan o i cartoni
animati di Mowgli, verde, verde, verde all’infinito in mille sgargianti
tonalità, erba alta, piante dalle forme più strane, contorte ma
aggraziate ed intorno un frastuono indescrivibile di cinguettii di
chissà quante varietà di uccelli dai piumaggi vellutati e luminosi,
strani e sconosciuti squittii di piccoli animaletti, versi di tutte le
tonalità, dalle più gravi alle più acute, che appartenevano ad animali
di chissà quali forme e grandezze. Africa, l’Africa lussureggiante dei
tropici, o l’India con la sua jungla intricata o forse ancora
l’Amazzonia. Immensa distesa di piante a perdita d’occhio e bestie
feroci; ecco cosa le dava quella vaga sensazione di panico che la faceva
tremare dal ginocchio in giù ed anche dal ginocchio in su, un luogo
meraviglioso come quello in cui era capitata, abitato da così tanti tipi
di piccoli animali, poteva non serbare brutte sorprese? Poteva, dietro
un albero, sotto il fogliame, nascosto nella melma in riva al fiume,
poteva non esserci qualche strana, orrenda, feroce bestiaccia? Leoni,
tigri, coccodrilli, qualcosa ci doveva pur essere, esisteva forse un
posto così bello e altrettanto sicuro?
Infine, stanca e affamata ma decisa, mosse i primi passi nella sua
nuova vita e cominciò serena il suo lungo cammino. In fondo, cosa
poteva capitarle di peggio che essere precipitata in questo incubo così
reale, beh poteva essere costretta a rimanervi ma al momento era meglio
non pensarci.
La natura intorno a lei viveva tranquillamente ignorandola, sì
decisamente si trovava in un luogo tropicale, in qualunque parte del
mondo fosse situato era comunque un posto caldo e umido, pieno di fiori,
piante e animaletti che le scorrazzavano tra i piedi e sopra i capelli
come se lei non esistesse, come se non la temessero. Così poteva pur
essere perché quelle dolci bestiole niente dovevano temere, la sua
intenzione era tutt’altro che bellicosa, era piuttosto lei che titubante
avanzava nella jungla temendo quasi di calpestarne qualcuna che le si
fosse malauguratamente trovata vicina. Dalle piante più basse
penzolavano strani frutti verdi e lunghi e delle piccole scimmiette dal
pelo fulvo se ne stavano cibando allegramente gettando tutto intorno i
poveri resti di quello che sembrava un incrocio fra un baccello ed una
banana. Ardea si avvicinò alla pianta ed allungò la mano per cogliere
uno di quegli strani frutti ma quando fu a portata di mano la più
dispettosa tra le scimmie penzolanti si volse verso di lei con uno
scatto repentino e le urlò contro, mostrandole una più che rispettabile
dentatura, gialla ma ben fornita di acuminatissimi incisivi ed
inondandola con il disgustoso odore che ne veniva impunemente emanato,
visto che quella mattina non era certamente stata omaggiata da una
neanche minima strigliata di dentifricio, cosa di cui avrebbe avuto
sicuramente bisogno; dopodichè le sferzò un colpo sulla mano prima che
con essa riuscisse a stringere il baccello. Con la mano dolorante ed
arrossata per la vergogna di essere stata colta con le mani nel vasetto
della marmellata, Ardea si ritrovò con il sedere per terra e con la
scimmia che le gironzolava intorno incuriosita ed imbronciata. Aveva
sbagliato, aveva mosso i suoi primi passi in qual mondo, con le sue
regole ed i suoi confini invisibili ed aveva immediatamente sbagliato.
Gli animali intorno a lei non la temevano ma ciò non voleva certo dire
che la avrebbero invitata a condividere le bontà locali e le specialità
della casa in un banchetto comune scimmie e…, e… , scimmie e cosa, lei
cos’era una bambina, mmmhhh no… no… troppo cresciuta ma non ancora da
considerarsi una donna, mmmhhh… una ragazza, una… una…,
<Mimmmina, ecco chi sei. Anche se sei grande e puoi davvero
chiamarti donna, io così ti avrei chiamata e così ti chiamerò, mimma, la
mia mimmina>
<Grazie nonno> rispose Ardea alla voce che sentì arrivare da
chissà dove <è molto dolce e tu puoi chiamarmi pure come più ti
piace, io, se non ti disturba, almeno davanti a questo coso peloso e
indispettito che mi balzella intorno ai piedi, preferisco sentirmi
donna, almeno per affrontare la situazione.>
A proposito, c’era da affrontare la situazione che, mentre lei si
perdeva in chiacchere, era ulteriormente evoluta. La piccola scimmia,
chiamata in causa dal maldestro avvicinamento di Ardea a quello strano
albero da frutta, si era a questo punto arrogata il diritto di
domandarle chi fosse, non a parole certo ma annusandola, toccandola e
assaggiandola con la lingua, proprio come fanno gli animali e anche i
bambini piccoli! Fra l’incuriosito e il divertito e con un pizzico di
paura, Ardea lasciava che l’animaletto verificasse le sue buone
intenzioni, decisa a chiedere, chissà come, scusa ed a fare o quantomeno
provare a fare amicizia con qualcuno, con… qualcosa, con… con quel
batuffolo di pelo rossiccio, anche solo per ritrovare un po’ di
sicurezza e di fiducia, per lo meno per quei primi momenti dopo il suo
rocambolesco arrivo in quel mondo di fiabe o addirittura per trovare un
compagno per il suo lungo cammino.
<Scusa> le disse mentre la scimmietta continuava ad annusare
quello che per lei era un nuovo e strano essere da cui emanavano odori
tra l’impaurito, lo stanco e l’imbarazzato <Scusami, io sono arrivata
in questo posto…, anzi per meglio dire mi ci sono ritrovata, perché sai
non so esattamente come ci sono capitata qui, tu mi potresti
rispondere?>
Ma la scimmia non poteva certamente comprenderla, oltre al fatto
che era tutta presa a passarle le narici sulla pelle morbida e
profumata, così Ardea continuò.
<Certo che no. Mica puoi parlare tu. E io invece che sto qui
come un stupida sciocca a fare due chiacchere con un animale. Ma tu sei
l’unica con cui io posso comunicare adesso> concluse sconsolata per
poi riprendere ancora.
<Io non so come riuscire a farmi capire da te, io sono stanca e
soprattutto affamata, scusami se ho toccato il tuo albero non lo farò
più, almeno che tu me lo permetta, io… io… troverò un albero da cui
poter cogliere dei frutti e mangiarli ma tu… tu… li vorresti mangiare
insieme a me?>
Fu in quel momento che, con uno scatto fulmineo, quello strano
cespuglio di pelo fulvo sparì davanti agli occhi di Ardea che lo vide
poi riapparire dopo un tempo così breve da sembrare che non se ne fosse
mai andato, solo che aveva in mano una banana, cioè un baccello, o
comunque quella cosa fra la banana ed il baccello.
<Baaa!> Le disse la scimmietta.
<Perlomeno sulle iniziali ci troviamo d’accordo, che sia banana
o baccello sempre baaa si può chiamare.> confermò Ardea,
avvicinandosi delicatamente al frutto stretto tra le mani dell’animale,
lo prese tra le dita e tirò lentamente finché si convinse che la scimmia
glie lo stava porgendo, lo sbucciò, lo morse e finalmente poté
cominciare a placare la sua fame.
<Io mi chiamo Ardea. Ardea, A A Ardea.>
<Aaa> Esclamò la scimmietta.
<E tu, tu come ti chiami, io Aaa e tu?> domandò Ardea cercando a gesti di mimare l’io e il tu.
<Maa!> precisò e scappò via.
Ardea la chiamò, corse verso dove le sembrava che fosse fuggita ma
non vide più niente, così di nuovo sola e sconsolata se ne ritornò
all’albero, anzi al Baano, come decise di chiamarlo. Si perché non
sembrava un banano, più che altro era un rovo, un cespuglio anzi, perché
non aveva spine, mentre le sembrava di ricordare che i banani avessero
il fusto lungo e fossero altissimi tipo le palme e poi i frutti
assomigliavano proprio alle banane sia per la forma che per il sapore,
solo che dentro alla buccia c’erano proprio delle specie di fagioli,
come in un baccello, dei fagioli dolci dal sapore di banana. Fu così che
fra pensieri di frutta e di scimmiette, circondata dalle bucce di baaa,
Ardea si addormentò stanca, soddisfatta del suo primo incontro e
satolla.
Il mattino dopo al risveglio nuove sorprese attendevano Ardea,
celate da foglie o nascoste dietro gli alberi, oltre ad una meravigliosa
giornata di sole e ad una scimmietta dispettosa. Chissà quali scoperte
avrebbe potuto fare nel lussureggiante verde di quella pianura infinita.
Maa le stava saltellando tutto intorno roteando le braccia pelose con
grandi volute, lanciando urli e stridendo in quel suo vocabolario
mozzato, sembrava quasi la stesse chiamando e allo stesso tempo che la
volesse svegliare solo perché indispettita dal suo continuare a bearsi
nel mondo dei sogni. Era giorno ormai, la foresta aveva tutta se stessa
da offrire, animaletti da inseguire spaventandoli, frutti da mangiare,
alberi da cui lanciarsi e con capriole, atterrare su morbidi tappeti di
erba, foglie, fiori, insomma per Maa quella era sicuramente l’ora
migliore per svegliarsi e voleva convincere di questo anche Ardea.
Assonnata e stordita, quasi spaventata dalle urla insistenti di Maa
spalancò gli occhi con un mezzo grido soffocato che le chiuse per un
attimo la gola, come se si fosse risvegliata da un incubo, solo che
l’incubo era li davanti a lei, un incubo peloso e saltellante. La
scimmietta insisteva, visto che era riuscita a svegliarla adesso doveva
convincerla a seguirla, così anche per Ardea quel tremendo risveglio si
sarebbe potuto trasformare in una meravigliosa giornata.
<Aaa, Aaa!> strillava e poi indicando se stessa le diceva
<Maa, Maa!> quasi come a consigliarle di seguirla. Ardea si alzò a
fatica, in quello che più che un risveglio le pareva un incubo e si
mise a seguire Maa, tenendola per una delle sue piccole e morbide manine
e lasciandosi trasportare con ancora gli occhi socchiusi ed il passo
barcollante. Maa si faceva strada fra le fronde delle piante ed i rami
degli alberi, mentre Ardea, ancora nuova a tali passeggiate, si lasciava
schiaffeggiare dalle foglie e evitava a malapena i rami. Dietro ad una
delle foglie più grosse che si era ritrovata appiccicata al viso, le si
aprì uno spettacolo meraviglioso, racchiuso in una cintura fittissima di
alberi e arbusti, celato alla vista di chi non lo conosceva e ignaro
fosse passato ad un solo palmo da quel luogo incantato, si nascondeva un
minuscolo laghetto. Come un diamante incastonato su di un anello
finissimo, una pietra preziosa e luminescente, abbagliante, tanto da
rendere invisibile ciò che le stava intorno, se ne stava placido e
protetto dal verde che lo circondava, i riflessi della luce si
divertivano a saltar fuori da ogni piccola increspatura della superficie
e regalare intorno visioni sfuggevoli di arcobaleni che si disegnavano
sulle foglie, sui tronchi scuri e sul bel vestitino bianco di Ardea.
Ecco sì, il suo vestitino, il suo bel vestito, adesso che era sulla riva
del lago poteva vedersi per intero, riflessa in quello specchio
naturale e limpido si guardava, si ammirava e le sembrava tutto così
naturale quanto curioso. La cosa che al momento le appariva più strana
era che, nonostante l’aspetto del luogo dove era stata catapultata,
nonostante si fosse persa da chissà quanto tempo e conservasse in se la
sensazione di aver camminato per giorni e giorni, nonostante la notte
passata a dormire stesa ai piedi di quello strano banano, nonostante
tutto, si ritrovava a questo punto con il suo vestito ancora di un color
bianco candido, quasi trasparente, sembrava una nuvola a passeggio nei
prati, così inadatto all’ambiente che la circondava, pieno di pizzi,
trine, volant e ricami pronti a rimanere impigliati in ogni ramo, in
ogni foglia, pronti a strapparsi e macchiarsi, a rovinarsi ad ogni
passo. Invece rimaneva candido, integro, luminoso e immacolato da
sembrare l’unico abito che avrebbe mai potuto indossare in quel paese di
chissà dove. Era tra il perlato ed il traslucido, solo a guardarlo,
anche nell’immobilità dell’osservazione si sentiva il rumore del tessuto
contro tessuto, come uno strofinio leggero, una nenia frusciante che
accompagna i sogni di un bambino, la risacca del mare nel buio della
notte, nel silenzio colmo di attesa sotto ad una pallida luna, bianco,
una veste estiva con spalline appena accennate dalle quali prendevano
l’avvio freschissime braccia, anch’esse bianche, fasciate da soffici
volute di pizzo che le ricadeva fino ai sottili polsi e liberava le
lunghe ed affusolate mani di Ardea. Uno scollo, nello stile imperiale
dell’ottocento, celava le sue forme di donna acerba e uno stretto
corpetto le delineava il girovita da cui la sua figura ne sgorgava fuori
come in un esplosione che culminava nella serenità del suo volto
limpido e innocente, incorniciato in lunghi capelli corvini raccolti in
un turbante naturale da cui alcuni lampi di crine fuoriuscivano come
grida verso la luce. Le larghe spalle di Ardea, candide e vellutate
respiravano della luminescenza donata loro dalla generosità che il
vestito offriva visto da dietro, fino alla chiusura, stretta, che teneva
poi tesi i davanzali, sorretti e avvolti da elaborate coppe ricamate in
girigogoli di trine e merletti. Lento, da sotto i seni leggermente
pronunciati, scendeva in rigagnoli goffrati di seta, formando disegni,
righe ed incroci di luce bianca, illusioni dell’occhio inesperto che lo
andava osservando, come un lampo improvviso che non vedi ma la mente tua
raccoglie, quasi dietro di te e ti costringe a voltarti ad osservare la
fonte di cotanto baluginare ed i tuoi occhi, ormai riempiti di luce
riflessa, ne rimangono abbagliati. Lento, come un sonnacchioso fiume di
pianura, lento fino a lasciarsi cadere a terra dove sembrava continuare a
spargere i brillanti rintocchi delle sue trame, dove il bianco e lo
splendente si insinuavano fra le felci e le erbe che attorniavano Ardea,
avvolgendola in un morbido bozzolo di seta vegetale.
Dopo essersi rinfrescata e rifocillata e dopo aver giocherellato
con Maa al gioco del rincorrersi e del ridere, sfinita dai salti e dalle
arrampicate fatte con la sua nuova amica, Ardea seduta ai piedi di un
enorme albero dalle lunghe fronde, piene di rosse bacche dall’aspetto
invitante, beata in quel paradiso terrestre fu prima scossa dal fragore
di un fortissimo tuono e poi assalita dalle urla, animalesche era
proprio il caso di dire, di Maa. Un enorme boato ed una scossa al
terreno l’avevano rapita dall’eden in cui si era rinchiusa e riportata
con i piedi per terra. Il rumore, quasi lo sbuffo di un gigante che
aveva digerito ed il tremore che ne era seguito, provenivano dalla
montagna alle cui pendici si trovava il laghetto di diamante, sulle cui
rive Ardea e Maa stavano giocherellando. La montagna in realtà altro non
era che un vulcano borbottante, un Vecchio Brontolone, come venne
spontaneo ad Ardea di chiamarlo, ma la scossa di poco prima ed il
frastuono che l’aveva accompagnata, erano stati come un avvertimento,
proprio come se qualcuno l’avesse voluta scuotere dai giochi e
riportarla alla realtà dell’impresa camminatoria che dal profondo di se
stessa aveva sentito di dover compiere.
<Buongiorno Ardea, mi duole quasi dirtelo ma sembra che da
queste parti sia in voga il detto “Il bel gioco dura poco” e aggiungerei
in questa occasione “Prima il dovere e poi il piacere”. Credo comunque
che avrai modo, nei giorni a venire, di trovare diletto nel paesaggio
intorno a te anche se e bene che tu tenga presente quello che senti
dentro, non sai quale ma tu hai un compito. Sono comunque sicuro che in
questa meraviglia di posto troverai certamente il modo di divertirti e
perdonami se ogni tanto verrò a guastarti le feste con le mie frasi
fatte e la mia noiosa retorica.>
<Buongiorno a te nonno, non preoccuparti tu puoi dirmi tutto
ciò che vuoi e ricordati che mi fa star bene il solo sapere che tu ci
sei. Certo che però non te ne scappa una, non ci si può distrarre attimo
con te, cos’è fai pure i botti?>
<No no no, io con i botti non c’entro, non sono io a comandare
quello che ti sta intorno. Io sono solo la tua coscienza noiosa,
quell’antico sapere che ti rimette in riga, o che beh…almeno ci
prova.>
<Ma se le cose stanno così allora tu sei me, la mia memoria
perduta, il mio passato, ciò che io non ricordo ma che è dentro di me,
ciò che io so su tutto questo ma non mi posso dire. Tu cioè io so dove
sono e cosa sto facendo ma lo tengo chiuso in me, nascosto, nascosto
dentro di te, è qualcosa del genere?>
<Uhhmmm…, sei troppo complicata Ardea, beh… credo che sia
qualcosa di simile, la tua guida inconscia e a volte forse incosciente,
per il viaggio che stai compiendo. Perdonami Ardea ma io sono qui per
ricordarti che non sei libera.>
<Nonno, cioè… io… si no… tu… cioè… oh insomma a me va bene
nonno, sì nonno ma tu non sei qui per tenermi prigioniera, tu non sei
cattivo, tu mi guidi e mi ricordi soltanto di stare attenta, tu vedi i
pericoli che io non voglio guardare, nonno… nonno… nonno? Nonno ci sei?
Nonno?>
Maa le saltò in braccio, fra lo spaventato e l’affettuoso,
distogliendola dai complicati pensieri che le stavano attraversando la
mente in quel momento. Avrebbe avuto modo di parlare ancora con la sua
memoria, con quel “nonno”, a suo modo affettuoso e premuroso, che la
controllava e la guidava allo stesso tempo. Strinse forte a se Maa e si
mise in viaggio anche per quel secondo giorno, anzi perché no, perché
non tenere conto dei giorni che sarebbero trascorsi e chissà quanti ne
sarebbero trascorsi prima di cominciare a capire qualcosa o prima che
cominciasse a non avere più importanza l’aver capito o meno. Trovò,
seminascosto dall’erba alta che la circondava, un lungo bastone, diritto
e nodoso che l’avrebbe anche potuta aiutare nel suo cammino e decise
che vi avrebbe inciso un segno per ogni giorno e non sapendo in che mese
fosse li avrebbe fatti tutti di ventotto giorni, seguendo il ciclo
lunare, così il ventottesimo giorno avrebbe fatto un segno diverso per
ricominciare con un nuovo ciclo. Cercò una pietra sulla riva del Lago di
Diamante e con essa tracciò due piccoli solchi sul bastone, per
indicare il secondo giorno, e poi di nuovo in cammino, il Vecchio
Brontolone alle spalle e davanti a lei, per ora, solo domande, poi si
vedrà.
<Andiamo nonno, rimettiamoci in cammino e cerchiamo di scoprire
le bellezze del posto, sperando che ci siano solo quelle e che non ci
sia qualche brutta sorpresa in giro.>
Uscì dalla fitta boscaglia che circondava il Laghetto di Diamante
accompagnata da Maa che, fatti pochi passi, le saltò delicatamente in
braccio cingendola al collo con uno dei suoi arti pelosi, avvicinò il
musetto al viso di Ardea, quasi come se le stesse rivelando un segreto e
con l’altro braccio sembrò indicare qualcosa. Là, dritta davanti a loro
e contorniata da rosee nuvole si ergeva una immensa e meravigliosa
montagna, ripida, maestosa e dolce allo stesso tempo, con la vetta
appuntita che si incuneava nel cielo. Irradiava un sensazione appagante
di respiro, come un sollievo, come dire finalmente, la sua meta, ora lo
sapeva, non sapeva perché e non sapeva quanto tempo le sarebbe occorso
ma sapeva che doveva raggiungere quella vetta, con la fatica che le ci
sarebbe voluta e la paura che l’avrebbe accompagnata ma là, su quella
cima le sarebbe stato risposto e Ardea chiedeva una risposta. Serena,
finalmente sicura, almeno della sua destinazione, si mise nuovamente in
viaggio, sotto i caldi raggi del sole e con il vento tiepido che le
carezzava il volto e le scompigliava teneramente i capelli, come avrebbe
fatto la mano di una madre.
Passavano i giorni, Maa spariva e riappariva, Ardea camminava, si
riposava, si rifocillava, giocava con Maa e poi riprendeva il suo
cammino ed alla sera cercava un rifugio, sotto qualche albero, tra le
rocce o tra le foglie gentili e accoglienti delle piante più basse e si
addormentava, stretta tra le braccia di Maa che, durante la giornata
sembrava divertirsi a scomparire improvvisamente e altrettanto pareva
nel riapparire ma la notte le due singolari amiche non si separavano
mai. L’una a cercare le braccia dell’altra, i respiri uniti in un ritmo
costante e sincronizzato con gli sbuffi lievi che il Vecchio Brontolone
aveva preso a emettere, le gambe rannicchiate, le ginocchia quasi a
toccare il mento e i piedi che scambiavano lievi tocchi con le punte
delle dita, le loro fronti in continuo contatto quasi a significare che
nel sonno riuscissero a comunicare meglio che con i ridicoli gesti
dell’una e gli acuti schiamazzi dell’altra, una posa che, a poterla
guardare dall’alto, avrebbe avuto le sembianze di un cuore. Erano ormai
ventotto i segni sul bastone di Ardea, si era compiuto un primo ciclo di
quella luna che ogni sera si affacciava sul cielo blu delle caldi notte
della vallata, illuminando d’argento i fiumi e gli specchi d’acqua,
facendo compagnia a quegli animali che proprio di notte cominciavano a
vagare per la foresta in cerca di prede, di cibo o di nuovi compagni.
Quella notte i sogni la cullarono e la strapazzarono. Era riuscita ad
assopirsi molto presto, nonostante che il Vecchio Brontolone quella sera
volesse dire la sua più del solito, sembrava proprio offeso e
indispettito e non riusciva a smettere di rumoreggiare, la nottata non
prometteva certo bene, gli sbuffi densi e insistenti avevano un vago
sapore di peperoncino, il Vecchio Brontolone non aveva digerito la cena,
chissà poi cosa mangiavano per cena i vulcani borbottoni. Forse proprio
cullandosi sulle liane di questi pensieri assurdi e divagatori Ardea
aveva preso sonno ed i sogni avevano preso lei.
Si rivedeva piccolissima, appena nata, scendere un lungo sentiero,
stretto e tortuoso che partiva da una specie di labirinto di spirali
sempre più strette, sempre più attorcigliate su loro stesse e negli
angusti vicoli di questo ritorto, bolle di sapone galleggiavano
nell’aria, più come chiocce che come gabbiani, spandendo intorno a loro
una tenue sensazione di calore. Dal dipanarsi di questo intreccio di
vicoli e vicoletti, di stradelle invase dal ballonzolare ritmico di
queste uova chiocce, la piccola Ardea se ne veniva tranquilla, serena e
spensierata quasi saltellando, come fanno appunto le bambine, che mentre
passeggiano ignare per il mondo, lasciano libero il pensiero e questo
fa loro prigioniere e le porta a spasso nella fantasia di cavalline
indomite e le piccine si ritrovano poi senza volerlo a procedere a
saltelli, magari canticchiando, che a guardarle te le immagini con i
calzoni corti, la maglia a righe rosse marinare ed un cappello di paglia
da collegiale con un esagerato fiocco rosso che lascia agitare le sue
punte nel vento fresco del nord i mattini d’autunno. E proprio questa
era l’immagine che si mise a galoppare nella sua mente, una bambina
piccola e spensierata che scendeva lungo un sentiero e si sentiva anche
lei un po’ bolla di sapone, anzi nuvola, batuffolo, mentre più che
scendere il sentiero si ritrovava a rotolarlo lentamente e saltellava e
si adagiava al terreno in cerca di un posto per il ristoro e saltellava
accalorandosi e posava mollemente la sua mole pacifica in cerca di
ombra, finché saltellando giunse alla fonte e potè finalmente bere e
terminando la sua lemme corsa sentirsi pervasa di calore, come penetrata
dalla pace e bere a più non posso e sentire la freschezza dell’acqua
che ti scende nella gola ed il calore della pace e la freschezza
dell’acqua, la pace, l’acqua, pace, acqua, calore, freschezza, il
calore, la freschezza… . Un grosso boato, uno sbuffo di fumo più denso
del solito che sparse intorno anche del cattivo odore e la cenere che
volteggiava annoiata soffiata dal vento ed infilata in ogni pertugio,
sotto ogni cosa, sì che al mattino dopo Ardea si sarebbe trovata
dormiente stesa sopra una coltre di cenere nonostante non si fosse
mossa, il Vecchio Brontolone era capace di far arrivare i suoi soffi
fino a chissà dove e chissà come. Il sogno era ormai interrotto,
inconsciamente Ardea stava tentando di ricucire lo strappo causato dallo
scossone ma ad ogni punto il sogno serbato ingrigiva e quello
svolazzante svaniva, il mattino successivo avrebbe però ricordato tutto
nitidamente, come se prima lo avesse vissuto e poi sognato e chiaramente
non ci avrebbe capito un accidente ma quella sarebbe stata l’ultima
delle sue preoccupazioni.
Si svegliò coperta di cenere e dopo un battito di ciglia, il sogno
le sembrò infatti l’ultima cosa di cui occuparsi e preoccuparsi. Come
sempre, chissà perché, non c’era mai il tempo per riflettere sulle cose,
sembrava che tutto camminasse in una sorta di lotta contro il tempo,
arrivare da qualche parte ma soprattutto arrivarci in tempo. Allora non
riflettere, non pensare ma agire mentre poi, durante le camminate, a
tutto riusciva a pensare tranne che a trovare risposte alle domande che
si era posta i giorni addietro, come se non se ne dovesse curare, vagava
meravigliata delle scoperte e delle visuali che ogni giorno le si
paravano dinanzi nuove e attraenti. Ogni questione irrisolta rimaneva in
attesa di una risposta, anzi della risposta e Ardea era convinta che
alle sue domande ci sarebbe stata un'unica risposta che le avrebbe
soddisfatte tutte assieme. O forse questa sua, chiamiamola distrazione,
era appunto tale solo perché ogni volta c’era sempre una novità buona o
cattiva da affrontare, un tramonto da ammirare o un precipizio da
saltare e… e purtroppo c’era anche questa volta e questa novità era
cattiva. Il sole era completamente oscurato da una enorme nuvola grigia e
tetra, il rumore degli strilli e dei lamenti degli animali era quasi
assordante, versi impauriti, spaventati a morte da qualcosa, la stessa
cosa che aveva provocato il fumo e la cenere. Maa accanto a lei strideva
e si sbracciava nel tentativo di farle capire qualcosa. Ma c’era poco
da capire in quel momento, l’unica cosa da fare era fuggire, fuggire
dalla foresta in fiamme come stavano facendo tutti gli animali. Dalla
cima del Vecchio Brontolone uscivano ancora lenti gli ultimi rigurgiti
di lava, mentre tutto attorno all’alto cono del vulcano, in quella
porzione di foresta che era stato il mondo nuovo di Ardea, quei luoghi
dove era precipitata da chissà dove, i luoghi che l’avevano accolta,
curata, nutrita, dove aveva cominciato a ritrovarsi a capirsi a
sentirsi, dove aveva sperato e sognato dove aveva cercato una risposta,
tutto era bruciato, devastato, arso e fumante. Ardea fuggiva con Maa
stretta tra le sua braccia, le lacrime agli occhi portate dal fumo ma
anche dalla paura e dalla tristezza e il suo vestito, quel suo maledetto
vestito bianco, immacolato anche in quella circostanza. Nemmeno in
mezzo a tutta quella polvere, alla fuliggine a quello scalpitare e
correre, nemmeno allora si era macchiato. Anzi no a vederlo bene l’orlo
era tutto nero, anzi no anche più su e più su ancora e ancora più in
alto e cresceva e si muoveva verso di lei. A quel punto Ardea lanciò un
grido altissimo, la paura, la sorpresa, il fiato corto per la corsa e
adesso anche tutto quel brulicare sul vestito, perché non era sporco,
no, Ardea si era resa conto che ciò che le stava salendo lungo la veste
bianca altro non era che una colonia intera di formiche che fuggivano
dalla foresta e non avevano trovato di meglio che farsi dare un
passaggio da lei. Le trasportò con se al riparo e per la piccola gioia
di salvarle e perché perdere tempo a liberarsi di loro sarebbe stato
certamente più pericoloso di quanto fosse fastidiosa l’indescrivibile
sensazione che un milione di formiche le stavano oramai dando su tutto
il corpo. Giunta infine dove l’erba era di nuovo verde e dove l’aria era
respirabile, Ardea si gettò a terra stanca, sfinita e stremata. Ne
aveva avuti di risvegli burrascosi, con Maa che strillava o che saltava,
con animaletti che le si erano addormentati tra le pieghe del vestito o
tra i capelli ma un risveglio come quello non le era mai capitato e
sperava davvero che ne glie ne capitassero più, né come quello né di
peggiori.
<Non ne sarei tanto sicuro, anzi ho proprio paura mimmina mia
che di questi bruschi risvegli ne avrai a vedere altri, mi sa che quel
fumicone del Vecchio Brontolone non abbia esaurito qui la sua
carica.>
<No, no, no, non ne voglio più di risvegli così, né di
addormentarmi così e tantomeno di stare sveglia con quel coso pronto a
sbuffare e lanciare fuoco da tutte le parti, non lo voglio, non voglio
più stare qui, me ne voglio andare, voglio andare, via, via via lontano
lontanissimo>
<Mimma, certo che te ne devi andare lontano, beh… mah… hmm… mi…
mi sembrava di averne già parlato di questo, non avevamo già detto che
tu dovevi andare, beh… si certo non avevamo capito dove e certo nemmeno
perché, però ero sicuro che avevamo già parlato del fatto che dovevi
andare.>
<Ma io ho paura nonno, non voglio stare in questa foresta, con
il rischio che da un momento all’altro quel coso si svegli e bruci tutto
quanto, me compresa e anche Maa, io ho paura, paura paura.>
E scoppiò a piangere, mentre Maa le teneva la testa e le carezzava
i capelli, il corpo disteso su verdi foglie, l’aria finalmente pulita,
la luce stava tornando e anche la calma stava riprendendo il suo posto
nell’animo di Ardea mentre Maa la accudiva e la confortava, carezzandola
e cantandole una specie di nenia, con quegli strani ed insensati suoni
che sembravano a volte delle parole.
<Ia-aaa, Ia-aaa, Ia-aaa, Ia-ooo.> mentre carezzava, cantava e
carezzava, cantava e carezzava, e Ardea ritrovava la sua forza il suo
coraggio e la voglia di arrivare fino a dove doveva arrivare.
Altri giorni erano trascorsi, altri sorgere di sole, altre notti
stellate accompagnate dal chiarore della luna. Ardea camminava non più
serena, non più tranquilla. Adesso fuggiva, la confusione si estendeva
dentro la sua testa, non solo chi, dove, come perché, mille erano le
domande che le si ripresentavano a turno nel silenzio della sua
solitudine nel mezzo della foresta, interrotto soltanto dalle grida e
dagli sberci della piccola Maa che tentava, invano a dire il vero, di
risollevare l’umore di Ardea. Non solo era stata gettata nel lì di
chissà dove, da qualcuno di chissà chi, non solo ubbidiva a quel
trasporto, che comunque al momento le aveva salvato la vita, che l’aveva
costretta a intraprendere quella lunga passeggiata senza meta, non solo
combattere con le sue paure immateriali e con il timore di ritrovarsi
davanti a qualche vorace felino o a qualche strano mostro ma sentir
nascere dentro di sé il timore di essere minacciata anche dalla natura,
sepolta da una catastrofica eruzione, soffocata dal fumo o arsa dalle
fiamme della foresta ardente. Fu a quel punto che, come al solito i suoi
mille pensieri furono interrotti dalla suadente e pacificante voce
celata dentro la sua testa.
<Ma tu sei Ardea> precisò < Sei tu che bruci tutto ciò
che abbandoni, sei tu che lasci la tua miccia dietro di te, dopo Ardea,
la foresta arde, brucia di te e tu temi te stessa.>
<Ma io non voglio che tutto venga distrutto, io non voglio che
nessuno abbia a soffrire per colpa mia, non voglio ardere un bel niente.
Non ho arso e non arderò proprio niente né col fuoco né con il mio
nome, che… che … che non so nemmeno chi me l’ha dato, non so nemmeno se è
veramente il mio nome, non so un bel niente ecco cos’è, altro che
ardere, che misteri del mio nome e… e… . Qui navighiamo nei misteri
nonno e tutte le volte che ti faccio le domande tu scappi, dici che sei
me … o… o che sei in me e o che… oh… uffa… ecco.>
<Mimmina, mimmina mia, mimma, mimma, ma che cos’è la vita se
non una lunga passeggiata senza meta e senza ritorno, chi mai potrà
portarti via la tua foresta, chi ti ruberà i ricordi di ciò che hai
passato la dentro chi ti sottrarrà le gioie e le paure che hai
provato>
<Nonno stavolta sei proprio… proprio… oh, uffa, no, io non
voglio che la foresta sia distrutta, io non voglio essere la causa della
distruzione della foresta, non io. Non voglio, ecco… oh!>
<Ciò che tu lasci alle tue spalle non potrai riviverlo, la
foresta che attraversi è il tuo presente e diventa il tuo passato non
appena sollevi il piede per compiere un nuovo passo. Quello che è
bruciato è il tuo passato, potrai ricordarlo, potrai riderlo o
piangerlo, ma non potrai mai riviverlo, non potrai mai tornare indietro,
ogni volta che poggi il piede abbandoni dietro di te il tuo passato e
un po’ di foresta. E la foresta bruciando ti ricorda che non potrai
tornare indietro>
<Ma io non voglio tornare indietro, ho la mia meta davanti a
me, già sono scampata a chissà quale belva si sarebbe potuta mai celare
la dentro e adesso è tutto bruciato e io non voglio, non voglio tornare
indietro e … nonno? Nonno, nonno ci sei? Ecco, lo sapevo. Arriva spiega e
poi va via, non mi lascia mai il tempo di replicare. E poi spiega, cosa
spiega dice dice e non dice proprio un bel niente. E adesso con chi mi
posso arrabbiare, con chi posso sfogarmi> prese a dire mentre intanto
colpiva la povera Maa con lievi buffetti in tutto il corpo.<Chi
dovrà sottostare alle mie ire? Uhh uuuhhh! Scappa piccola scimmietta
perché sei tu il mio prossimo bersaglio.> e la vita finalmente
riprese.
Maa si mise a correre e a saltellare, si aggrappava ad un ramo poi
correva qualche metro con quella sua buffa andatura a quattro mani, poi
di nuovo fra i rami, gridando, come sua consuetudine, di quegli urli
sguaiati che solo delle antipaticissime scimmiette possono fare.
<È inutile che scappi tanto ti prendo, brutto e pestifero
ammasso di peli, tanto ti prendo ti prendo e ti torturo di solletico,
prima prendo delle foglie e me le infilo nelle orecchie, uff, uff,
aspettami, poi ti tengo ferma con una mano, hei ma dove vai vieni qua,
che ti devo torturare e non ce la faccio più a correrti dietro.>
E Maa pazza, più pazza della povera Ardea saltellava a destra e a
manca sbeffeggiando la sua inseguitrice e vincendola sia nella corsa che
nell’agilità che nel fiato. Spariva e riappariva, spariva e riappariva
ed alla fine, mentre Ardea ormai sfinita crollava a terra fra sguaiate
risate e vani tentativi di arrotolare delle foglie per infilarsele nelle
orecchie, riapparve la dolce Maa con due banane, pardon con due Baae,
una per sé e l’altra per la spensierata Ardea, che nell’affanno più
completo, con il respiro mozzato dalla corsa e dalle risa, ancora
continuava a mimare le torture che avrebbe inflitto alla scimmia se
l’avesse presa e poi, poi si ritrovarono affettuosamente abbracciate,
come due sorelle a gustarsi quello spuntino, a dire il vero più che
meritato, dopo la fatica dei giochi e la ritrovata serenità. La lunga
camminata ancora le attendeva e le forze disperse andavano recuperate in
fretta, buon appetito.
Dopo albe e tramonti, dopo foreste e radure, dopo banane, bacche e
altri frutti strani, dopo i giorni del cammino, quella sera segnò di
nuovo il suo bastone per la ventottesima volta, con un segno più alto a
definire la fine di quel secondo ciclo. Le scendeva una lacrima lungo la
guancia ed il riflesso brillante della luna faceva sembrare argenteo
quel rivolo di timore che le stava attraversando il volto. Adesso aveva
paura ma era andata avanti. Aveva vinto, aveva deciso di proseguire
nonostante i pericoli che la potevano attendere, nonostante la
stanchezza e le avversità che la attendevano dopo ogni passo, dietro
ogni albero, ogni roccia, ogni collina, aveva deciso di ascoltare la sua
voce interna, il suo istinto ed il terrore di Maa ed aveva deciso di
continuare il suo cammino ma non l’aveva fatto per la paura, per il
timore di soccombere sotto cumuli di cenere o di venire bruciata lei
stessa insieme alle sue domande ed a quell’ammasso di pelo che ormai non
si separava più da lei o era lei a non volersi separare dalla
dispettosa ma premurosa Maa. L’aveva fatto e lo stava facendo per la
vita, la sua vita. Più volte si era fermata a rileggere la sua nuova
storia, più volte mentre la luna cresceva, aveva guardato il suo futuro,
l’aveva cercato o per lo meno aveva cercato di scorgerne una traccia,
un piccolo appiglio ma sicuro, che le desse la forza per andare avanti.
Procedeva di giorno e temeva ogni sera, poi si era convinta, non causa
di disastri ma vittima degli stessi terremoti che scuotevano l’intera
vallata. Proseguire, sì per fuggire ma proseguire per giungere al
compimento del suo destino, seguire il fiume che la trasportava, quello
ideale del suo destino, un fiume che si apriva continuamente in nuovi
bracci a volte più larghi a volte più stretti ma che lasciva a lei la
facoltà di decidere, di scegliere da quale parte voleva che il suo
destino la portasse. Proseguire per sapere, per conoscere, per crescere,
non per paura di uno sbuffo più violento che il Vecchio Brontolone
avrebbe potuto gettarle addosso. Tutto questo l’aveva spronata e l’aveva
accompagnata nella sua avanzata durante i giorni appena trascorsi,
fiera aveva mosso un passo dopo l’altro, aveva vinto, aveva sconfitto le
sue paure e procedeva alla ricerca di se stessa, avendo ormai da tempo
rinunciato a cercare qualsiasi altra forma di vita umana in quel deserto
di verde e di animali. Adesso però era lì, era arrivata di nuovo a quel
confine invisibile fra un ciclo della sua luna ed uno nuovo, aveva
tracciato il segno sul suo bastone come ogni sera prima di
addormentarsi, solo un po’ più lungo e quella sera certo non sarebbe
riuscita ad addormentarsi. Il ricordo di quello che era successo il
mattino dell’eruzione non l’avrebbe potuta mai abbandonare, era lì,
presente nella sua mente e vivo come appena accaduto, il suo spavento,
le urla di Maa che tentava di svegliarla e di portarla via da quel
materasso di cenere che le si era creato sotto al proprio corpo, poi il
crepitare della foresta in fiamme e la visione di quella che a lei era
sembrata un immensa distesa di niente, solo cenere in terra e fumo in
aria e quello strano odore di peperoncino, quel sapore piccante sulle
labbra. Forse fu proprio la paura, forse la tensione, l’attesa, la
speranza di un inutile attesa, vedere arrivare il nuovo giorno per
essere sicura che non succedesse niente, forse tutto questo o forse solo
la stanchezza, solo il normale cambiare dalla luce del giorno al
crepuscolo e poi il tramonto, fatto è che pur non volendo Ardea si
addormentò.
Il mattino successivo ci fu una nuova eruzione. Ardea non si
ritrovò sepolta sotto coltri di cenere, non fu risvegliata dalle grida
impaurite di Maa, non fu scossa dai tremiti della terra, fu proprio
risucchiata d’improvviso da un profondo sonno mentre si vedeva raggiante
passeggiare tra fiori colorati e profumati e ne mangiava, coglieva i
più grossi e li portava alla bocca come fossero succulenti dolcezze.
Certo che in quella foresta le dolcezze le erano proprio mancate,
budini, tortine, panna, crema e cioccolato, hmhmmhh il cioccolato e
allora che fare, meglio godersele, almeno in sogno. Coglieva e mordeva,
coglieva e mordeva, coglieva e mordeva ma mano a mano che ne assaggiava
il sapore cambiava, si inacidiva sempre più fino a divenire piccante
come se succhiasse del ferro, fu un attimo realizzare il sapore del
sogno e sentirlo reale nella bocca, d’improvviso le attraversarono la
mente immagini di distruzione, di fuoco, di disperazione e terrore.
Tutto questo ebbe la durata di una frazione di secondo, si sentì portare
via, come se una grande mano l’avesse agguantata nel profondo del sogno
e la stesse tirando con forza e vigore, via, via dalla pace, via dal
riposo, via dalla quiete e dalla serenità e poi precipitare nella
realtà, nella dura e spaventosa realtà. Sentì una voragine sotto di se,
come se il suolo d’improvviso si fosse allontanato repentinamente e
cominciò a urlare di paura e di sgomento e urlando si risvegliò in una
foresta verde, calma e quieta e per un attimo, un piccolissimo attimo,
credette che il sogno l’avesse ingannata, che si fosse soltanto burlato
di lei, che avesse approfittato della sua fragile anima. Poi il rumore,
enorme e terrificante ed il cielo si riempì di colori, di suoni e delle
interiora del Vecchio brontolone, lanciate a gran velocità e a grande
distanza. Come non aveva voluto credere ma come Ardea temeva, il compito
del vulcano era proprio quello di distruggere la strada dietro di lei,
anzi la strada che lei avrebbe dovuto percorrere, che lo avesse fatto o
meno e questa volta si sarebbe dovuto impegnare più di quella passata
per cancellare dalla vista di Ardea tutta la vegetazione ancora intatta
tra l’enorme bocca infuocata e la sonnacchiosa fuggitiva della foresta.
Maa sopraggiunse dall’interno della foresta urlando a
squarciagola, correva a più non posso verso la radura dove Ardea aveva
momentaneamente trovato rifugio, agitava le lunghe braccia sopra la
testa nel tentativo, a dire il vero del tutto umano, di attirare
l’attenzione verso il pericolo che incombeva e allo stesso tempo
sembrava che imprecasse o invocasse qualcuno, su in alto oltre le
nuvole, oltre il cielo. La scena era oltremodo comica ma Ardea era ormai
sprofondata in una crisi di paura e disperazione dalle quali persino la
bizzarra Maa avrebbe avuto difficoltà tirarla fuori, nemmeno se ci si
fosse messa con ruspa e paranco, sì che l’allegra scimmietta non aveva
certo bisogno di impegnarsi per strappare ad Ardea qualche simpatico
sorriso se non una risata piena, di quelle da tenersi la pancia ma
stavolta ogni tentativo dello scalmanato batuffolo di pelo risultò
inutile e la tristezza rimase sul volto e nei pensieri di Ardea, persi
tra domande e preoccupazioni, tra paure e illusioni. Piangeva di lacrime
calde che le grondavano direttamente sulle scarpette, ancora bianche e
immacolate come il suo vestito, di nuovo scampato indenne a bruciature,
cenere e fumo. Del resto la sua tenuta, tutt’altro che da battaglia, era
invece risultata da sempre refrattaria alle macchie di qualsiasi tipo,
frutta, erba e terra nulla potevano contro il candore abbagliante della
sua luminosa uniforme, tantomeno aveva riscosso successo in questo campo
Maa, la regina delle impiastricciature e degli inzaccheramenti. Spesso e
volentieri si lasciava infatti trasportare a spalla o addirittura in
braccio come un bebè e di sicuro non era una rappresentante del partito
dei candidi, tantomeno l’avrebbero scritturata per le dimostrazioni
della fiera del bianco, forse con un detersivo avrebbe avuto più
possibilità, sì un detersivo capace di cancellare le impronte delle
sudice zampacce di Maa avrebbe avuto sicuramente un successo
interplanetario. Ardea però aveva paura e la sua veste contribuiva ad
alimentare il terrore, sì certo sentiva di essere al sicuro
dall’eruzione che pur sembrando impossibile non voleva colpire lei ma
soltanto impedirle di ritornare sui suoi passi, ma il rumore, il calore e
la distruzione che portava, lasciava nel suo cuore e nella sua delicata
mente uno sgomento profondo. Si alzò in piedi, mentre le lacrime calde
continuavano a sgorgarle copiose e a rotolarsi sulla pelle liscia del
suo volto prima di perdersi nelle trine del vestito o cadere ad
innaffiare l’erba, quell’erba che domani sarebbe bruciata.
Passarono alcuni giorni prima che Ardea trovasse la forza di
alzare la testa ma mai dimenticò di camminare, non abbandonò la sua
lenta corsa verso quel traguardo di cui non conosceva… non conosceva…
beh di quel traguardo non conosceva un bel niente e…
<Là, oltre il traguardo, come lo chiami tu c’è il mondo, il
mondo che hai lasciato e che ti appresti a ritrovare, c’è la tua nuova
vita, ci sono i tuoi amici, i tuoi parenti, la scuola il lavoro, la tua
intera nuova vita e…>
<Si nonno, ci credo, ma… come mai nessuno è venuto a cercarmi
fin’ora? Perché nessuno verrà a cercarmi domani? Perché nessuno verrà a
cercarmi, vero nonno? Nessuno mi ha data per dispersa, nessuno si è
infilato le mani nei capelli, colto dalla disperazione pensando a me e a
dove potrei mai essere. Dove sono i miei genitori, cosa ho fatto di
male per meritarmi il loro oblio, perché non…>
<Benedetta figliola come posso spiegarti cose che non so, che
non sai. Loro sono tutti là, genitori, parenti, amici e anche nemici e
ti stanno aspettando. Mettila come vuoi ma questa è come dire… hmm quasi
come … come… quasi come una prova sì ecco, una prova da superare, se
riesci ad arrivare fino alla Montagna Rosa, quella là dritta ed enorme
davanti a te, ecco che … op la … la prova e superata. Ma loro ti
ameranno, che tu ce la faccia o no, non è un impegno non è un obbligo,
loro sono lassù e sperano che tu desideri raggiungerli, lo sperano
davvero con tutto il cuore e anche se non te ne accorgi loro ti
controllano in ogni momento, per ogni tuo movimento.>
<Nonno, prima che tu sparisca come sempre, ti volevo ancora una
volta dire grazie per le tue parole, tu riesci sempre a calmarmi anche
se non sempre riesci a rassicurarmi. Spero comunque di trovare in ciò
che hai detto la forza e la pace interiore per continuare testarda la
mia salita verso quelle meravigliose ed invitanti nuvole rosa e là spero
di trovare anche te nonno… nonno?… Nonno?… Nonno! Sei peggio di quella
bertuccia di Maa, appare dice la sua e poi puff, come se niente fosse,
senza avvertire svanisce come è apparsa, maleducato tu come lei, sì
maleducato> sentenzio ironica Ardea <maleducato tu e questa palla
di pelo.>
<Maa?> le chiese la scimmietta.
<Si Maa è maleducata e impertinente per giunta, sì,sì,sì.> e
incominciò a canzonarla e a punzecchiarla con buffetti divertiti e a
loro volta impertinenti.
Cominciarono a rincorrersi tra l’erba e i fiori e finalmente Ardea
dimenticò la tristezza portatale da quella seconda eruzione.
Ce ne fu un’altra, la terza, ventotto giorni dopo.
Ardea aveva infine accettato completamente la funzione
purificatrice delle eruzioni, si era soffermata sul limitare della
foresta bruciata e dopo un approfondito esame si era resa conto che non
c’erano animali tra la cenere, nessun essere vivente era rimasto colpito
dal cataclisma. Aveva mandato Maa a controllare meglio, anche se non
era convinta che la scimmietta avesse ben compreso ciò che lei chiedeva e
Maa se ne era tornata tranquilla e a mani vuote. No non c’erano
pericoli, anche se il ritrovarsi davanti ad un tale spettacolo, con
fiamme che si levavano altissime e rocce infuocate che vengono sparate
alte nel cielo, mette addosso una certa paura. Sì paura, quella paura
che adesso, misurato il pericolo, poteva paragonare a quella provata da
bambina, quando nelle feste di paese nel bel mezzo della serata più
importante si sentivano scoppiare nell’aria, colorati e furibondi, i
fuochi d’artificio.
Le due allegre compagne continuavano ogni giorno la loro serena
camminata, ognuna presa dai propri pensieri e distratta dai propri
interessi. Così Ardea vagava tra i meandri reconditi della sua mente e
ripensava ai giorni trascorsi, a quanti passi aveva calcato su quella
terra accogliente e inospitale allo stesso tempo, tra i mille
avvenimenti di quella strana avventura, rifletteva sul fatto che, più
passava il tempo, più camminava e meno sentiva la stanchezza, quasi come
se il percorso la stesse nutrendo, come se la stesse rafforzando, come
se il suo corpo si stesse fortificando di giorno in giorno grazie a
chissà quale evento, oltre al fatto che ingurgitava quantità industriali
di Baane, Aacci, Mee e altri strani frutti, benchè guardandosi riflessa
negli specchi d’acqua dove ogni giorno si abbeverava con la dispettosa
compagna, non avesse notato alcuna differenza nelle sue sembianze né
chiaramente in quelle del candido vestito che appariva anzi ancor più
luminoso ogni giorno, passeggero indenne di infinite peripezie tra
acqua, fuoco, piante e frutta.
Bene! Giunti a questo punto i compiti sembravano comunque chiari,
primo: camminare, beh non era difficile, la stanchezza non si faceva mai
sentire e Maa era una compagna di viaggio di tutto dispetto, mmhhhm…
cioè no… ecco sì… di tutto rispetto, sì, così va bene; le giornate
passavano tranquille e la noia non aveva mai fatto capolino durante
l’interminabile passeggiata nella jungla del mondo sconosciuto. Aveva
invece sentito, con gioia visto le prelibatezze del luogo, i morsi della
fame e dopo un iniziale preoccupazione, anzi un vero e proprio terrore,
mangiare era diventato un divertimento. Il primo giorno si era già
vista costretta a cibarsi di formiche, cavallette e bacherozzi vari
serviti su piatti di corteccia d’albero. Il che non le avrebbe fatto
solo schifo ma addirittura non sarebbe riuscita lei stessa a condannare
quelle piccole bestiole a diventare il suo pranzo quotidiano. Già se le
immaginava tremanti tra le sue mani e urlanti di terrore, chissà poi
come urlano le formiche? Si vedeva mentre portava quella pietanza
tutt’altro che succulenta alla bocca, ne sentiva lo scricchiolare della
dura corazza, inutile difesa contro i suoi robusti denti, si immaginava
di inghiottire il tutto per poi sentirle risalire mentre avrebbero
camminato veloci nella sua gola alla ricerca di una via d’uscita,
aaaaahhhhhh!!! Poi aveva incontrato Maa e mangiare era diventato uno
spasso. La piccola scimmia le aveva insegnato a riconoscere i vari
frutti, a scegliere i più saporiti, i più maturi ed i più polposi, a non
lasciarsi ingannare dalla forma e dal colore ed a riconoscere quelli
più adatti al pranzo e quelli per la cena, che poi di notte non
l’avrebbero disturbata con gorgogli rumorosi o strani movimenti interni
capaci di svegliarla di soprassalto nel cuore della notte. Le sorprese
già abbondavano in questo covo di meraviglie e non c’era bisogno di
procurarsene con la golosità. Procedendo nell’elenco si poteva trovare
come secondo importantissimo compito quello di sfuggire alle grinfie del
vulcano, il Vecchio Brontolone e le sue eruzioni calcolate, precise e
ormai prevedibili era un pericolo relativo e poi quella boccaccia focosa
non aveva realmente l’intenzione di farle del male, certo intenzione
era un parola grossa, sembrava quasi che il vulcano potesse avere una
mente, sì e magari un anima. La stava spingendo lontano da sé, lungo un
percorso ben definito, la allontanava spaventandola solo per
indirizzarla verso la sua meta finale. Ed eccoci qua, terzo raggiungere
questa sconosciuta ed incognita meta; cosa c’era laggiù, oltre la
montagna, oltre quella vetta acuminata e rosea, al di là di quello che
per lei era diventato il proprio mondo, al di là di se stessa e Maa cosa
c’era? La vita? Una città? Persone che l’amavano? O c’era forse la
fine, la fine di tutto o era l’inizio che l’attendeva oppure… Ardea si
fermò, sentì chiaramente dentro di sé che qualcosa non stava andando, la
sua ostinata presunzione che quella fosse soltanto una passeggiata e
non un viaggio costellato di misteri pronti a svelarsi nella loro
delicatezza o nella loro malvagità, la stava forse tradendo,
probabilmente primo, secondo e terzo non erano le sole cosa da tenere
presenti in quel mondo, l’antica sensazione di paura doveva essere
prontamente recuperata e tenuta accanto all’attenzione per poter andare
avanti nel cammino. C’era qualcosa, qualcosa stava accadendo in quel
preciso momento, era una cosa nuova, mai provata e la stava divorando
dentro, poi il dolore si placò, Maa gettò nell’aria uno dei suoi strilli
più acuti e corse a rifugiarsi sulla cima della palma più vicina
continuando a gridare a più non posso, Ardea alzò gli occhi e finalmente
la vide.
Enorme, maestosa, meravigliosa nella sua imponenza, nonostante la
paura che incuteva. Era impossibile non rimanere come ipnotizzati ad
ammirarne le forme, la fierezza, i colori. Si trovava a circa cento
metri da Ardea, il suo colore era come oro scintillante sotto un cielo
che per la prima volta si stava riempiendo di nubi minacciose e cariche
di pioggia, cariche di violenza e di tempesta. Le sue striature erano
gocce di petrolio che scendevano lente dal possente dorso fino a
perdersi nel bianco del ventre, il quale sembrava chiamarla inattesa
ospite di una cena di gala. Eccola finalmente, temuta, sognata in incubi
di paura e di terrore, indesiderata quanto perennemente presente nei
suoi timori era arrivata, quella bestia feroce, la padrona della valle
che veniva a riscuotere il suo credito, il mostro che l’aveva tenuta
sveglia le prime notti e che l’aveva accompagnata silenzioso in quegli
ultimi giorni finalmente era arrivato, infine si era presentato in tutta
la sua mirabile inaspettata bellezza ed in tutta la sua enorme potenza
distruttiva. Poi la tigre ruggì e l’intera valle si riempì di quel
gorgoglio che fece perdere alla scena tutta la sua mirabile poesia e ne
rese chiara la violenza, la crudeltà e la malvagità. Ardea conobbe
quella paura e quel terrore che infinite volte si era immaginata e vide
davanti a se la morte che la stava aspettando, cominciò a piovere,
mentre nubi sempre più nere si addensavano nel cielo ed i primi lampi
accompagnati dai fedeli tuoni squarciavano il cielo, facendo da eco ai
ruggiti sempre più profondi e sempre più vicini.
<Aiuto nonno, che sta succedendo, cosa… cosa devo fare, cosa
posso fare… nonno… nonno per favore dimmi che ci sei, nonno!>
<Tieniti forte mimma, tieniti molto forte e credi, tieniti agli
appigli che troverai perché sta per arrivare e sarà violenta, credi,
credici Ardea, credici fino in fondo.>
<Tieniti forte, si certo dove, come, a cosa e che devo tenere,
qui bisognerebbe che sapessi volare e probabilmente se volassi adesso
rimarrei folgorata da un fulmine mentre me ne scappo alta nel
cielo…aiuto nonno aiutami. Maa, Maa, oh mamma!>
Non era possibile che ciò fosse vero, no, non c’entrava niente,
era un colpo di grancassa tra violini stridenti, anzi no, era una
batteria intera che rullava nel sottofondo di una serenata alla
finestra. No, va bene camminare, va bene scappare o meglio essere
indirizzata verso una meta sconosciuta, va bene il Vecchio Brontolone,
le eruzioni e gli incendi, va bene che doveva aver paura e lei
sciagurata, dopo un inizio nel terrore, si era data alla pazza gioia
scorrazzando con Maa per la foresta e facendo da padrona in un mondo non
suo. Va bene, va bene ma questo adesso cosa c’entrava? Se tutto questo
era un enorme sogno precostituito e lei aveva solo dei compiti da
rispettare, quale significato aveva quella malefica meraviglia che le si
poneva davanti? Poi un ruggito riempi nuovamente la valle, il cielo
rombò e la tigre cominciò ad avanzare lentamente. La risposta alle sue
domande apparve a quel punto chiara, no non c’entrava niente ma c’era.
Era una macchia di vernice caduta su un dipinto di valore,
un’ammaccatura in un vaso d’argento, uno schiaffo sulla faccia di un
bambino, qualcosa che non doveva assolutamente esserci però c’era. Il
cielo era completamente nero, quasi come fosse notte ma nel cielo non
c’era la sua compagna notturna ad illuminarle il cammino, non c’erano le
stelle a rallegrarle la vista, a formare figure di volti o di strani
animali, c’erano solo lampi di fuoco e rombi di tuono. E la tigre
continuava ad avanzare lentamente.
Fu il tempo di un pensiero, un lampo attraversò il buio del cielo e
in un lampo la tigre le fu addosso, sbattendola con forza a terra,
lasciando che il suo bel vestitino bianco si sporcasse del fango che
correva veloce sotto la pioggia battente. Maa urlava con tutto il fiato
che c’era nella sua piccola gola, sbracciandosi a più non posso
nell’inutile tentativo di spaventare o quanto meno distrarre la tigre. I
lunghi artigli dell’animale si infilarono tra le trine e i merletti,
lacerando il candore dell’abito e facendo apparire rosse macchie di
sangue tra i veli trasparenti ed i soffici tessuti.
Ardea rimase più colpita dal suo corpo e dal proprio vestito che
dall’irruenza, dalla potenza e dalla violenza di quell’enorme bestia
striata d’oro. Non aveva mai pensato di essere vulnerabile, aveva avuto
paura fin dal primo giorno ma la suadente voce che l’aveva accompagnata
l’aveva rassicurata inconsciamente e nella sua anima si era accoccolata
la sventata certezza che lei stessa e il proprio corpo fossero
invulnerabili; non si era mai ferita, non aveva mai provato dolore, si
era sentita stanca ma non di fatica, stanca perché sperduta, stanca
perché stufa ma mai provata, mai sfinita. Non aveva pensato che qualcosa
del genere potesse mai accadere a lei, era l’incantesimo che si
spezzava, la magia che incontrava il proprio antidoto era la vita vera
dopo giorni e giorni di sogni.
Il cielo appariva ancora più buio del nero più scuro e i lampi si
susseguivano infiniti uno dopo l’altro quasi a formare un manto striato
di oro e di nero anche sopra la vallata oltre a quello che già la
sovrastava ferendola e terrorizzandola. Il ruggito era frastornante
sentito da così vicino e il fetore che fuoriusciva dalle fauci della
Tigre era quello delle paludi, dove acque contaminate ristagnavano senza
vita. La sua pelliccia era invece una sirena infida che cantava e
attirava a sé morbida, vellutata, calda ed invitante e mentre Ardea si
perdeva nel vortice misto di paura, delirio e gioia incosciente, pronta a
cadere definitivamente, a lasciarsi andare, ad abbandonare quella
inutile lotta impari, mentre la piccola Maa scesa dalla palma si era
avvicinata alle due lottatrici e continuava ad urlare a squarciagola
cercando di attirare su di se l’attenzione, quando la tigre si erse in
tutta la sua infinita possenza, ferma sulle zampe posteriori con gli
artigli al cielo e lanciando un ruggito che per un attimo sovrastò il
rumore dei tuoni, in quel momento quando tutto era ormai perduto davanti
agli occhi di Ardea si parò uno spettacolo terrificante ma liberatorio.
La tigre alta sopra di lei si arrestò, volse il suo sguardo verso Maa
fissandola con odio per un attimo di troppo, ingenuamente distratta da
quell’insignificante animaletto saltellante che riuscì invece ad
ottenere quello per cui stava rabbiosamente lottando. Una delle migliaia
di fulmini che saettavano violenti intorno a loro aveva colpito in
pieno la temibile mastodontica bestia. Per un attimo il cielo, la terra,
l’animale e la luce erano furono un tutt’uno, un'unico cuneo di energia
che cercava di spezzare in due quel piccolo fragile mondo. La forza
dell’uragano che si era scatenato sembrava in un primo momento essersi
alleata alla tigre mentre invece le si era rivoltata contro riducendola
in un ammasso di polvere fumante. Dopo un breve e fuggevole attimo in
cui era parso che il fulmine si fosse nutrito dell’energia della tigre e
questa di quella della saetta, apparsa come sua alleata agli occhi
impauriti di Ardea, la natura aveva trovato dentro di se la forza per
distruggere il più mortale dei pericoli che in quel momento si stavano
abbattendo su Ardea, che avrebbe potuto farcela a salvarsi dalle forze
del vento o della pioggia ma non avrebbe avuto alcuna possibilità contro
quella sinuosa, ammaliante, feroce e potente bestia, il male sotto una
forma mirabile ed il male era stato sconfitto.
Rimase lì, sotto la pioggia battente che piano piano smorzava la
sua forza, con il sedere immerso nel fango, i capelli come un putrido
turbante intorno alla sua testa, le mani piene del suo sangue, sgorgato
da ferite poco profonde ma che erano riuscite a farle comunque sentire
la forza del male. Maa le corse incontro senza smettere di lanciare i
suoi acuti versi e la circondò con le zampacce pelose formando con
l’amica un unico amorfo ammasso di paura e amore sotto le ultime
goccioline di pioggia. Ardea piangeva, piangeva della paura e rideva,
rideva della vita e di ciò che le era sembra